LIBEROLIBRO CONSIGLIA: L’ISOLA DEI FIORI DI CAPPERO, V. FAENZA

Ogni settimana, LiberoLibro si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo L’isola dei fiori di cappero, di Vito Faenza; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

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Anna è solo una tredicenne ma è la più bella del paese e questo basta al figlio del Boss del clan locale per decidere che quella ragazza deve essere sua. Per lei invece, quella è soltanto la prima cotta di una ragazzina, attratta più dalle attenzioni di questo ragazzo appena maggiorenne e dallo status sociale che il frequentarlo le permette di avere rispetto alle coetanee. Questa storia la fa sentire grande e importante anche se lei intuisce perfettamente che l’amore, quello vero, è un’altra cosa; qualcosa che non ha bisogno di pensieri costosi, sfarzo e dimostrazioni di potere. Anche i genitori di Anna non condividono la decisione della figlia e le fanno capire, con modi molto diversi, che quel ragazzo proprio non va bene. Anna decide perciò di interrompere questa storia ma viene minacciata da lui con una pistola e comprende così di essere solo un oggetto, qualcosa da possedere, perché lui “la considerava una sua proprietà, una cosa di cui solo Luipoteva disporre e decidere quando disfarsi. Voleva essere il padrone della più bella, il resto non contava”. Un giorno nel villino accanto al suo si stabilisce con la sua famiglia Giovanni, un ragazzo molto carino e completamente diverso dal figlio del Boss, e così Anna, senza saperlo, inizia a scoprire l’amore.
“L’isola dei fiori di cappero” è una piccola perla, un romanzo breve ma intenso, capace di suscitare una tale tenerezza e dolcezza per una storia d’amore che nasce tra due ragazzi e che, fra mille difficoltà, cresce tra un uomo e una donna; ma è anche un libro in grado di generare rabbia e sconcerto per la realtà di un paese che vive schiacciato dalla presenza costante della camorra, un paese nel quale tutti sanno ma nessuno si ribella e chi lo fa apertamente spesso finisce vittima della lupara bianca. Nel suo romanzo l’autore, Vito Faenza, racconta in modo semplice e diretto il significato che assume per una donna il diventare “donna di camorra” anche contro la propria volontà; ma anche il senso di vivere, più in generale, in un territorio controllato dalla criminalità. Essere donna di camorra significa subire l’umiliazione di una visita medica da un ginecologo affinché il camorrista si assicuri che la sua donna si sia conservata, significa non fare mostra di sé in alcun modo se non per sostenere il proprio uomo in termini di potere davanti agli altri – come per la passeggiata nel paese una volta usciti dal carcere, in cui chi viene rimesso in libertà è accolto dalla popolazione come un perseguitato – significa che non esistono manifestazioni d’amore in pubblico ma solo dichiarazioni di possesso, significa non avere la possibilità di decidere nulla, nemmeno per quanto concerne il proprio matrimonio, significa che “gli affari sono roba da uomini, le donne non devono metterci bocca. O sono femmine da letto o sono madri, mogli, sorelle o figlie. Le prime puttane. Le seconde serve silenziose”…significa che la camorra può rubarti tutto, anche i sogni. Ma ci sono anche donne di camorra per cui un collaboratore di giustizia è solo un “maiale” e il proprio uomo affiliato a un clan è in realtà un bravo ragazzo, donne per cui “infame” è un pentito, “infami” i carabinieri che effettuano gli arresti e “infami” i giudici che devono celebrare un processo; sono donne che si sentono importanti se insultano i giornalisti, convinte di aver compiuto grandi imprese. Sono donne per cui anche un prete “non è un vero prete” se si scaglia apertamente contro comportamenti malavitosi. Questa è la realtà delle donne di camorra, che l’autore svela nel suo romanzo in modo semplice e diretto, una realtà di sottomissione ma, talvolta, anche di profondo disagio nel quale anche un atto importante, coinvolgente e splendido come il fare l’amore diventa un qualcosa di sbrigativo e un’umiliazione subita, un dolore così forte da lavare via sotto il getto purificatore della doccia.
Nel suo libro, tuttavia, l’autore intende far comprendere al lettore quali sono anzitutto le modalità con cui opera la camorra nei suoi territori e quali sono i meccanismi che decretano il potere o la perdita dello stesso da parte dei clan. Soprattutto, grazie alla sua conoscenza del fenomeno, è parte del suo intento far capire cosa significa ancora oggi vivere in un contesto totalmente condizionato dalla presenza della camorra, in alcuni territori del Paese ma, più in generale, convivere con la malavita in qualunque zona del Paese. Faenza descrive molto bene la paura di trovarsi senza difese di fronte alle imposizioni o alle minacce dei clan, la difficoltà di opporre resistenza quando devi convivere con questo male; al punto che talvolta è più coraggioso decidere di andarsene piuttosto che restare e arrendersi a una vita apparentemente tranquilla ma che richiede, in realtà, compromessi e una disperata accettazione della situazione. E’ con questi stati d’animo che spesso le persone che vivono in alcuni territori si schierano contro la criminalità organizzata, con la paura di possibili ritorsioni da parte dei clan. In modo altrettanto chiaro e semplice Faenza descrive le modalità con cui i poteri forti come la politica, la Chiesa o in certi casi la stessa magistratura si relazionano con i clan camorristi. Uno degli esempi più eclatanti, che abbiamo spesso sotto gli occhi, è quello della politica la quale, alternativamente, non nega l’esistenza della camorra e anzi si dichiara sempre pronta a combatterla vantando il proprio impegno in tal senso e prodigandosi in elogi ai magistrati e alle forze dell’ordine; quando tuttavia la politica viene toccata direttamente da indagini relative alla malavita allora queste diventano pretestuose e fallaci, la giustizia diventa una giustizia a orologeria che vuole solo infamare bravi politici e i giudici sono tutti “toghe rosse” o magistrati politicizzati. E’ da sottolineare poi che spesso i boss dei clan vengono eliminati in accordo con gli stessi uomini politici, poiché risultano talvolta più utili così a chi sostiene di combattere la criminalità organizzata. Da questa sorta di circolo vizioso non si salvano certamente tutti i giornali, infatti alcune testate talvolta tendono ad assolvere i parlamentari e a contestare la magistratura perché certi esponenti della stampa sono corrotti o favorevoli ai clan. E non è esente nemmeno parte della magistratura nelle zone in cui la camorra è radicata, in alcuni casi è infatti corrotta per condizionare gli esiti dei processi e in parte, invece, impone alle forze dell’ordine di ignorare la presenza di uomini politici collusi con i clan se presenti al momento degli arresti. Non ultima, anche la Chiesa ha le sue responsabilità. Poiché se ci sono quei preti scomodi che pongono in essere attività di vario genere per togliere i giovani dalla strada ed evitare così che diventino manovalanza criminale a basso costo, preti che si espongono in prima linea e hanno il coraggio di denunciare i delinquenti durante le omelie in chiesa e sono spesso quelli che, purtroppo, finiscono sui giornali nelle notizie di cronaca nera, uccisi per la loro fermezza nel lottare contro la camorra e i politici corrotti; sono quei preti che non vengono lasciati in pace dalla malavita nemmeno dopo la morte, perché è proprio quello il momento in cui inizia l’opera di denigrazione mirata a intaccare la loro integrità e moralità presso l’opinione pubblica e da questo lato la Chiesa preferisce continuare a non interessarsi di quanto accade, come Mizaru, Kikazaru e Iwazaru, le tre scimmie sagge “non vedo, non sento e non parlo”.
In alcuni casi, anche se ancora troppo pochi, è possibile che magistratura, politica, giornalismo e forze dell’ordine lavorino insieme e qualche esponente importante non soltanto della camorra ma della stessa politica o magistratura corrotta venga quantomeno indagato o ne vengano chieste le dimissioni. Si tratta purtroppo ancora di pochi casi rispetto all’emergenza che è tutt’ora presente nel nostro Paese. Con il suo libro, Vito Faenza vuol pertanto far riflettere i ragazzi che vivono immersi in contesti dove la camorra è fortemente presente e gli altri che invece pensano si tratti di un fenomeno lontano…ma con questo breve romanzo invita a riflettere anche gli adulti, che hanno o dovrebbero avere gli occhi bene aperti su questi aspetti del Paese, aspetti che non riguardano solo alcune zone del nostro territorio ma che ci riguardano tutti, da vicino. Ognuno di noi dovrebbe essere come “i fiori di cappero, che sembra[va]no orchidee…La pianta cresce abbarbicata sui muri, sulle rocce, resta attaccata alle rupi resistendo al caldo torrido…” e noi, come queste piante, dobbiamo crescere e tenere duro di fronte a queste sfide per cercare di avere un Paese migliore per noi stessi e per quelli che verranno dopo di noi.

LIBEROLIBRO CONSIGLIA: SonderKommando Auschwitz di Shlomo Venezia

Ogni settimana, LiberoLibro si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo SonderKommando Auschwitz, di Shlomo Venezia; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

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Un libro della Memoria per la memoria; forse questa sarebbe la frase più adatta se si volesse riassumere in poche parole un testo così fondamentale come quello che rappresenta la testimonianza unica e toccante che Shlomo Venezia, ebreo di origine italiana nato a Salonicco nel 1923 e morto a Roma nel 2012, ci ha lasciato.
E’ difficile recensire un libro simile, e un libro che racconta la vita nei Lager e nel SonderKommando non può essere sintetizzata in poche parole; il rischio che si corre è di banalizzare e svuotare di senso un’esistenza. Allo stesso tempo però non si può prescindere dalla lettura di un libro così necessario, che tutti dovrebbero conoscere per sapere cosa accadeva davvero nell’area delle camere a gas e dei forni crematori.
Si potrebbe obiettare che ormai certi fatti sono noti, che sono stati girati molti film e documentari sulle barbarie naziste nei Lager, che di libri ce ne sono molti in circolazione e che forse uno vale l’altro. Ma se così fosse allora le tante posizioni negazioniste non dovrebbero più esistere e le testimonianze come quella di Shlomo Venezia non sarebbero più necessarie.
L’uomo però tende purtroppo a dimenticare, a non imparare dalla storia e a mettere qualunque cosa in discussione: per questo libri come SonderKommando Auschwitz sono ancora così imprescindibili, perché nessuno potrà mai raccontare il Lager come chi lo ha vissuto sulla propria pelle e nella propria anima; soprattutto quando quella stessa persona viene poi a mancare. Ecco allora che, in assenza della sua voce che narra l’incubo vissuto e portato dentro in silenzio per decenni, questo libro emerge ancor più con tutta la sua forza e la sua tragicità.
Il SonderKommando era infatti un “Comando Speciale” formato, per volere delle SS, dagli stessi ebrei imprigionati nei campi di sterminio nazisti; al quale era affidato il compito di “lavorare” nel Crematorio.
Ciascun Crematorio era costituito da un fabbricato con uno spogliatoio, una camera a gas e diversi forni in cui venivano bruciati i cadaveri delle persone uccise dal gas. Per ogni Crematorio c’era un SonderKommando.
Ad Auschwitz-Birkenau c’erano quattro Crematori e per ciascuno di essi un SonderKommando.
Il “lavoro” nel SonderKommando era probabilmente il più atroce che i nazisti potessero ideare per gli ebrei imprigionati, non soltanto perché i suoi membri erano costretti ad accompagnare gli ebrei che non avevano superato la “selezione” alle camere a gas, ma anche perché a loro spettava il compito di aiutare le SS nel momento in cui dovevano versare lo Zyklon B per gassare le persone rinchiuse nella camera, ascoltarne le urla e i pianti mentre morivano, svuotare la stessa camera dei corpi ammassati e senza vita in mezzo al sangue e ai liquidi persi dalle vittime mentre venivano soffocate dal gas e sentivano la vita abbandonarle lentamente gridando per dieci-dodici minuti cercando di respirare.
Una volta estratti tutti i cadaveri i membri del SonderKommando dovevano poi pulire la camera a gas affinché nessuno degli altri prigionieri si accorgesse di ciò che realmente avveniva in quella stanza. Nel frattempo altri membri del “Comando Speciale” avevano il compito di tagliare i capelli alle donne e riporli in un sacco e altri estraevano i denti d’oro dai cadaveri. Alla fine questi corpi venivano caricati su un montacarichi e mandati al piano superiore del Crematorio, dove si trovavano i forni, per essere bruciati.
Come può un compito simile non segnare profondamente un uomo?
Ed è infatti proprio lo stesso Shlomo Venezia ad affermare che “non si esce mai dal Crematorio”; una frase che fa ben comprendere quanto perverso sia stato il progetto nazista che ha creato i Lager e le squadre speciali dei SonderKommandos, obbligando gli stessi ebrei prigionieri – già vittime – a svolgere compiti atroci e impensabili che avvicinano la vittima, involontariamente, al carnefice.
E’ stato il modo scelto dai nazisti per distruggere l’umanità dei prigionieri, costringendoli ad azioni che li avrebbero segnati per sempre se fossero sopravvissuti ai campi, ma che comunque hanno certamente segnato la vita anche di chi purtroppo, per citare in qualche modo i Nomadi, è “passato per il camino e adesso si trova nel vento”.
In questo modo i nazisti hanno trasferito in gran parte sui prigionieri il peso dell’omicidio di conoscenti, amici, donne, anziani, bambini riempiendo di sensi di colpa l’anima di queste persone e rendendole, di fatto, incapaci di continuare ad accettarsi come esseri umani.
Per chi è sopravvissuto ai campi di sterminio è questa la ferita più profonda, quella che Primo Levi definì la “malattia dei sopravvissuti” per cui ogni ricordo rappresenta una sofferenza enorme che non abbandona mai e ogni attimo di gioia porta con sé un’indicibile disperazione.
Non è possibile, di fronte a questa testimonianza, non porsi molte domande e non riflettere su quanto accaduto e quanto accade ancora oggi, magari in altre forme, ma che dimostrano quanta strada abbia ancora da fare l’uomo per potersi definire veramente”civile”. Domande che possono essere ben riassunte in modo semplice dai versi de “La canzone del bambino nel vento (Auschwitz)” dei Nomadi:

“Io chiedo come può l’uomo
Uccidere un suo fratello
Eppure siamo a milioni
In polvere qui nel vento…

Ancora tuona il cannone
Ancora non è contenta
Di sangue la bestia umana
E ancora ci porta il vento…

Io chiedo quando sarà
Che l’uomo potrà imparare
A vivere senza ammazzare
E il vento si poserà…”

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: L’ABBRACCIO PERFETTO, K.ASTOLFI

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo L’abbraccio perfetto, di Kempes Astolfi; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

liberolibro macherio consigliaAmanda Lisetti è un’aspirante giornalista dal caratterino piuttosto particolare, non propriamente simpatica e affabile con gli altri, ambiziosa e disposta praticamente a tutto per ottenere ciò che vuole. Blogger nota, suo malgrado, a livello internazionale dal momento in cui è cominciata la sua personale ricerca del misterioso J…un ragazzo coinvolgente, sicuro di sé, accattivante, incontrato per caso in un pub e con il quale ha trascorso un’intensa nottata senza alcuna implicazione fisica. Il suo blogLost&Find, letteralmente Perduto eCerca, nato per recuperare informazioni che possano aiutarla a trovare J, diventa infatti in breve tempo uno dei blog più seguiti al mondo, poiché molte sono le donne che si sono ritrovate nella stessa situazione di Amanda e che vogliono sapere di più di questo uomo.
Chi è questo misterioso J, che ammalia donne in ogni parte del mondo, passa con loro una nottata indimenticabile, purtuttavia senza coinvolgimenti fisici, e poi sparisce lasciando solo un biglietto con la sua iniziale?
L’autore riesce con la sua narrazione a rendere interessante e non banale la storia, intrecciando due vite, quella di Amanda Lisetti e quella di J, in modo sapiente e accattivante. Inoltre è decisamente interessante il modo in cui caratterizza i personaggi, dai protagonisti ai comprimari, suscitando simpatie o antipatie verso gli stessi rendendoli in tal modo quasi reali. Unica pecca riscontrabile è la scelta di chiamare la protagonista femminile per cognome per la maggior parte del racconto, aspetto che tende a renderla ancor più antipatica; elemento probabilmente non necessario dal momento che il carattere della stessa viene perfettamente delineato nel corso della narrazione e questa tecnica può risultare superflua se non addirittura fastidiosa nello svolgimento della lettura.
Nel suo primo libro tuttavia, l’autore Kempes Astolfi mostra, o per meglio dire ricorda alle lettrici, come sia possibile per tutte trovare l’Abbraccio Perfetto; ovvero una condizione di benessere con l’altra persona che vada ben oltre un mero rapporto fisico e come valga la pena aspettare per trovare qualcosa di veramente speciale, senza accontentarsi. Inoltre Astolfi rammenta agli uomini come ci sia, nella relazione con le donne, qualcosa di più profondo e importante da ricercare; una sorta di intimità e di complicità dell’anima più che del corpo. Tutto nell’opera di questo autore porta a domandarsi: “Esiste davvero l’abbraccio perfetto?” ma, soprattutto: “E’ ancora possibile sperare in qualcosa di simile di questi tempi, in cui molti sono forse più cinici o disillusi anche a causa della perdita di valori nella società contemporanea?”. Sullo sfondo di queste domande però, l’autore restituisce forse proprio quella speranza perduta, o almeno orienta il lettore verso la riscoperta di questo possibile sentimento.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: SE TI ABBRACCIO NON AVER PAURA, F.ERVAS

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Se ti abbraccio non aver paura, di Fulvio Ervas; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

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“Se ti abbraccio non aver paura” è una frase che i genitori di Andrea hanno fatto scrivere su alcune magliette del figlio, tutte dai colori molto accesi. Sì perché Andrea ha questa sorta di “abitudine” che lo porta ad abbracciare qualunque persona entri nella sua orbita e non tutti si aspettano un gesto simile così all’improvviso. Perciò le sue magliette sono una specie di avvertimento. Perché la vita di Andrea è fatta di gesti impulsivi, di ordine, di gesti ripetitivi…ma anche di confusione mentale e di isolamento in un mondo tutto suo. Sì, perché ad Andrea all’età di tre anni è stato diagnosticato l’autismo. Da allora i suoi genitori non si sono arresi, non lo hanno fatto di fronte a specialisti che spiegavano loro le cause genetiche della malattia, che la vita è imperfetta e che vivere con una persona nelle condizioni di Andrea è come vivere sotto una tirannia. Le provano tutte, dalla medicina tradizionale a quella specialistica, fino a rimedi meno convenzionali ma nulla sembra poter cambiare lo stato del loro figlio maggiore, con tutto il carico emotivo, di rabbia e angoscia che una situazione simile può portare con sé.
Con molta pazienza e tanto amore insegnano ad Andrea a esprimersi utilizzando il computer come mezzo di comunicazione, attività che inizialmente avviene solo in presenza della madre. Ma Andrea comunica il suo sentire, la sua confusione e la paura di non essere compreso – anche dai suoi genitori – la sua difficoltà a eseguire troppe richieste, a parlare e a controllare il suo corpo nonostante l’impegno; la sua disperazione e ansia per la condizione in cui si trova; il suo essere “un uomo imprigionato nei pensieri di libertà” e la volontà di guarire. Ed è con questo carico di pensieri ed emotivo che, con l’avvicinarsi dell’estate e al momento di decidere la meta per le vacanze, Franco – il padre di Andrea – decide, con coraggio e tanto amore, di rispondere a un urlo di suo figlio che sembra quasi una richiesta di libertà. Da questa volontà nasce l’idea di un viaggio attraverso il continente americano, senza alcuna tappa pianificata, ma lasciandosi guidare da Andrea e dall’imprevisto…perché per Andrea “le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto”.
Nel loro viaggio in libertà alla scoperta dell’America, Franco e Andrea incontrano persone di qualunque tipo; alcune in grado di “sentire” davvero la loro storia e le loro emozioni, altre più diffidenti. Molte regalano loro frammenti di vita fondamentali per vivere la loro condizione in modo diverso e, forse, comprenderla in modo più profondo rispetto alle visioni fornite dalla medicina. Andrea è un ragazzo davvero speciale perché ha una capacità di sentire e di percepire il mondo che lo circonda in modo molto più intenso rispetto a chiunque altro. Abbraccia, bacia e tocca la pancia alle persone che incontra, stabilisce un contatto e resta in ascolto. E’ il suo modo di presentarsi alle persone per conoscerle e allo stesso tempo tranquillizzare se stesso, per non agitarsi e controllare la confusione che sente nella sua testa. Nei suoi occhi “corrono nuvole”, non guarda mai nessuno a lungo ma dà solo qualche furtiva sbirciata e anche se non usa le parole, sa trasmettere emozioni molto forti con semplici gesti e i suoi sorrisi. Andrea è un modo di colori, di cromie tutte sue, che sono le parole con cui si esprime. Per Andrea questo viaggio è la scoperta delle infinite possibilità di comunicare con chi sa davvero ascoltare e un avvicinarsi emotivamente a suo padre, al punto di riuscire a comunicare con lui tramite computer anche senza la presenza della madre, di vegliarlo quando sta male e di trasmettere i suoi stati d’animo anche solo con uno sguardo.
Per Franco diventa invece un’esperienza che tocca l’anima, che permette di comprendere davvero come l’autismo non sia solo fatto di gesti ripetitivi, di comportamenti particolari, di confusione mentale; no, è qualcosa di più profondo che sa regalare nuovi modi di guardare e vivere. Franco si troverà ad affrontare le sue paure e preoccupazioni di padre, trovandosi in situazioni che prima aveva solo ipotizzato per suo figlio, ma facendosi toccare profondamente anche da situazioni che lo porranno di fronte a nuove domande e nuovi dubbi…nonostante ciò lascerà anche che gli eventi permettano a suo figlio di vivere esperienze mai provate, convinto che ciò possa imprimere in Andrea qualcosa che niente e nessuno potrà mai togliergli.
L’autore, Fulvio Ervas, racconta con molta naturalezza, partecipazione, intensità e anche molta ironia la storia vera di Franco e Andrea e la loro avventura on the road alla scoperta dell’America e di se stessi in un romanzo che è ha un sapore agrodolce per le domande che solleva e le forti emozioni che suscita.