LIBEROLIBRO CONSIGLIA: DAVID COPPERFIELD, C. DICKENS

Ogni settimana, LiberoLibro si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo David Copperfield, di Charles Dickens; recensione di Gresi Vitale. Buona lettura!

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Il grande ricordo che segna quel tempo nella mia mente, sembra aver inghiottito tutte le memorie minori, ed esistere solo.

Ci sono moltissime passioni che rispondono nel modo più perfetto ad un determinato uomo. Divengono timone e vela della nostra anima navigante e spargono ovunque un pizzico di follia. Personalmente, se dovessi esprimermi per metafore, ho sempre considerato le passioni come una sorta di vertigine alla nostra ispirazione. Piccole venuzze che spuntano da una fessura di una roccia che continua a zampillare senza interruzione. Si accumulano lentamente nella cavità della nostra anima e, solo dopo, attingerne qualcosa di naturale.
Per me, e per molti altri autori, le attività individuali più fertili e affidabili per il nutrimento della mia anima furono la lettura e la scrittura. E il proposito di scrivere per caso lo concepì constatando quanta gioia si celi nel catturare il pensiero astratto su pagina. Il mio stile ancora semplice e acerbo, tuttavia, mi rende consapevole di come scrivere un romanzo richiede molta energia fisica. Molto tempo e molta cura. Un po’ come correre una maratona, come dice il mio amato Murakami.
Le recensioni che scrivo, i romanzi che leggo, mi fanno prendere coscienza su qualcosa che ormai considero come una certezza: le stanze buie della mia anima trovano lucentezza, rifugio e senso di conforto nella letteratura. Un’idea folle che è nata in me quando ero ancora una bambina e che, in un momento imprecisato della mia vita, ha affondato le sue radici crescendo lentamente.
Per poter scrivere l’ennesima recensione di uno dei pilastri di tutta la letteratura vittoriana, l’autobiografia romanzata della vita del grande scrittore ottocentesco, del mio incontro con David – una lotta tra due mondi che restano tuttavia nettamente separati -, ho atteso il momento più adatto in cui le parole scivolassero nei ricordi luminosi della mia coscienza e si scontrassero contro oscure ombre, nello spazio bianco della mia camera. Per qualche momento, frustrata e insoddisfatta, osservando una pagina bianca intrappolata in una finestra virtuale dalla luce vaporosa, aspettavo trepidante che mi venissero date le parole. Scivolassero lentamente nella mia coscienza in un luogo diverso da quello di cui ero circondata fino a quel momento. E, allo stesso tempo, trasmettessero immagini nitide ma remote. Echi lontani di una realtà che ha le caratteristiche di una giardino abbandonato in cui è impossibile non provare compassione. Nutrire il nostro cuore di piccole gocce di veleno, anche se per qualche giorno. Esperienze tanto strane quanto sordide.
Mi sono circondata da fantasmi prigionieri che, in un’ incessante lotta contro il protagonista, mi si coagularono attorno. Non presero consapevolezza di se stessi persino nelle loro fantasie più nascoste, amalgamandosi a tal punto da costituire un unico essere. Seduta sulla mia poltrona preferita, completamente assorbita dalla storia, sentivo rintoccare le ore di questi intensissimi pomeriggi dedichi a David dall’orologio della mia camera. I miei pensieri erano contrastanti; non riuscivano a soffermarsi sulla tragedia che pesava nel cuore del protagonista, ma indugiavano su tutto ciò che lo circondavano. La sua infanzia, che scorre lentamente con la scioglievolezza e la dolcezza di un sogno; l’ombra incombente del suo grande dolore e, una serie di sfortunati avvenimenti, che non avevano ancora una forma precisa.
E’ una storia in cui pervade una generale malinconia, ma nel mio inconscio aspettavo che la luce di un mero sprazzo di luce rischiarasse le tenebre dell’ animo di questi fantasmi. Quel raggio di sole abbagliante che per poco tempo veniva sporadicamente rammentandogli che in ogni comunità si mescolano il buono e il cattivo, e che la fugacità di un misero atto d’amore non doveva investire inevitabilmente anche l’atto più insignificante.
Vestire i panni del giovane David, anche se per un breve lasso di tempo, entrare nel giardino delle sue avventure – non scoprendo, tuttavia, le ombre ambigue dei suoi passi -, vederlo interagire con creature che ostacolarono il suo benessere e lo indussero alla disperazione, mi ha permesso di condividere pienamente questa storia che l’autore si porta dentro. I volti che, per qualche giorno, divennero famigliari ai miei occhi, al termine della lettura, col romanzo riposto sullo scaffale, immerso nella pace del giorno, svanirono nel momento in cui erano divenute “persone”. Lasciarono dietro di loro uno spazio vuoto che aveva una sua forma. Ma a brillare nella volta celeste, ed assistere continuamente alle mie spericolate immersioni in un epoca che ha sempre destato il mio fascino, era un unico volto: quello di David che, guardandomi attorno, nella meravigliosa serenità del giorno, mi tenne compagnia più di chiunque altro. Non fu quel genere di eroe che mi ero aspettata, ma, come il giovane Pip di Grandi speranze, un giovane scrittore pieno di ambizioni che mi narrò la sua storia quasi come una lunga e profonda meditazione sul senso della vita. Scritte in quelle che non sono altro che pagine della sua memoria, che si trascineranno fino a quando metterà il punto finale, per poter così mettere a nudo una parte della sua anima per noi completamente estranea. Derivati trascurati di una vita carica di sofferenze mentali, dolori, mancanze di speranze che, come un fastidiosissimo incubo, popolarono i suoi sogni. Gettando una spettrale aria di malinconia e pervadendo i sensi in una lenta agonia.
Nel pellegrinaggio solitario della sua giovinezza, che solo una volta giunto alla fine gli permetterà di scovare la sua identità, percorrerà quelle che non sono altro che le tappe della sua vita e, riversandole in quel contenitore che è la letteratura, brilleranno come la profondità di un altura smossa da qualcosa di lucente. Invadendo completamente il mio corpo di una strana luce, compiendo un incantesimo a cui non ho saputo resistere.
David Copperfield è un’opera radicata nel territorio dell’immaginazione urbana e negli spazi urbani, in cui fa sfondo una Londra distesa in una cappa di vapore. Tragico/comico, oscilla continuamente con la stessa energia verbale cui l’autore mescola le vicende di altri personaggi. E, su uno spazio capace di mutare ogni volta, adattandosi come una pelle al ceto sociale e al linguaggio di ognuno, Dickens, costituisce un palcoscenico frenetico in cui il lungo viaggio del giovane David entra in contatto con diversi meccanismi: la famiglia, l’istruzione, la prigione.
Racconto di un uomo apparentemente forte ma fragile, disilluso, timoroso del futuro e del senso della vita, trascinante, formativo e piuttosto appassionante, David Copperfield non è solo un affresco della letteratura vittoriana. Piuttosto un affascinante intreccio di follia, passione, affetti, malessere e benessere, ma anche un meraviglioso viaggio per aver permesso sia a David sia al lettore di crescere in questa tetra solitudine. Rifocillare l’anima, quando non aveva la certezza di poterlo fare.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: FIORE DI NEVE E IL VENTAGLIO SEGRETO, L. SEE

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Fiori di neve e il ventaglio segreto, di Lisa See; recensione di Giulia Gallo. Buona lettura!

liberolibro macherio consigliaCina, XIX secolo, ecco lo sfondo in cui ci troviamo quando decidiamo di aprire questo romanzo. La storia delle donne di una remota contea di Hunan è la vicenda principale. Si parla di donne che usavano un codice segreto per comunicare tra loro, linee eleganti e misteriose tracciate su ventagli, per condividere sogni, aspettative e dolore. Uno di questi ventagli è quello che si scambiano Giglio Bianco e Fiore di neve, laotong, amiche giurate per la vita.
La vicenda ci viene narrata proprio da Giglio Bianco, che ormai arrivata alla veneranda età di ottanta anni, decide di spiegare la complicata esistenza delle donne nella società cinese. Le donne della stessa famiglia erano relegate in una stanza, detta appunto “stanza delle donne” in quanto era loro proibito il mondo esterno fino al giorno del matrimonio. Giglio Bianco ci fa rivivere i suoi ricordi sin dal giorno della fasciatura dei piedi, una pratica che veniva usata per ottenere piedi piccolissimi che, erano segno di prestigio e che aiutavano ad ottenere un ottimo matrimonio.
La scrittrice ci parla di una situazione davvero particolare e dolorosa per le donne di quegli anni, donne che vivevano per il matrimonio, tolte alle loro famiglie e mandate sotto l’autorità della famiglia dello sposo.
Leggendo questo libro sono diversi i momenti in cui proviamo dolore e sofferenza insieme alle protagoniste, viviamo le loro emozioni quasi come se fossimo lì accanto a loro. Un romanzo che cattura il lettore dalla prima all’ultima riga, ci fa scoprire tradizioni antiche cinesi come la scrittura segreta delle donne, ovvero il “Nu Shu” e l’usanza dei piedi bendati. Lisa See è letteralmente una maga nel narrare questa realtà poco conosciuta, il suo stile è sottile e affilato quasi come un rasoio in alcuni punti. Apprezzato moltissimo e consigliato soprattutto a tutte quelle persone che amano imparare dalle altre culture!

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: L’ABBRACCIO PERFETTO, K.ASTOLFI

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo L’abbraccio perfetto, di Kempes Astolfi; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

liberolibro macherio consigliaAmanda Lisetti è un’aspirante giornalista dal caratterino piuttosto particolare, non propriamente simpatica e affabile con gli altri, ambiziosa e disposta praticamente a tutto per ottenere ciò che vuole. Blogger nota, suo malgrado, a livello internazionale dal momento in cui è cominciata la sua personale ricerca del misterioso J…un ragazzo coinvolgente, sicuro di sé, accattivante, incontrato per caso in un pub e con il quale ha trascorso un’intensa nottata senza alcuna implicazione fisica. Il suo blogLost&Find, letteralmente Perduto eCerca, nato per recuperare informazioni che possano aiutarla a trovare J, diventa infatti in breve tempo uno dei blog più seguiti al mondo, poiché molte sono le donne che si sono ritrovate nella stessa situazione di Amanda e che vogliono sapere di più di questo uomo.
Chi è questo misterioso J, che ammalia donne in ogni parte del mondo, passa con loro una nottata indimenticabile, purtuttavia senza coinvolgimenti fisici, e poi sparisce lasciando solo un biglietto con la sua iniziale?
L’autore riesce con la sua narrazione a rendere interessante e non banale la storia, intrecciando due vite, quella di Amanda Lisetti e quella di J, in modo sapiente e accattivante. Inoltre è decisamente interessante il modo in cui caratterizza i personaggi, dai protagonisti ai comprimari, suscitando simpatie o antipatie verso gli stessi rendendoli in tal modo quasi reali. Unica pecca riscontrabile è la scelta di chiamare la protagonista femminile per cognome per la maggior parte del racconto, aspetto che tende a renderla ancor più antipatica; elemento probabilmente non necessario dal momento che il carattere della stessa viene perfettamente delineato nel corso della narrazione e questa tecnica può risultare superflua se non addirittura fastidiosa nello svolgimento della lettura.
Nel suo primo libro tuttavia, l’autore Kempes Astolfi mostra, o per meglio dire ricorda alle lettrici, come sia possibile per tutte trovare l’Abbraccio Perfetto; ovvero una condizione di benessere con l’altra persona che vada ben oltre un mero rapporto fisico e come valga la pena aspettare per trovare qualcosa di veramente speciale, senza accontentarsi. Inoltre Astolfi rammenta agli uomini come ci sia, nella relazione con le donne, qualcosa di più profondo e importante da ricercare; una sorta di intimità e di complicità dell’anima più che del corpo. Tutto nell’opera di questo autore porta a domandarsi: “Esiste davvero l’abbraccio perfetto?” ma, soprattutto: “E’ ancora possibile sperare in qualcosa di simile di questi tempi, in cui molti sono forse più cinici o disillusi anche a causa della perdita di valori nella società contemporanea?”. Sullo sfondo di queste domande però, l’autore restituisce forse proprio quella speranza perduta, o almeno orienta il lettore verso la riscoperta di questo possibile sentimento.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: LA SETTIMA STREGA , P. Zannoner

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo La settima strega, di Paola Zannoner; recensione di Martina Volontè. Buona lettura!

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La letteratura fantascientifica per ragazzi è un oceano di parole (letteralmente).
Le scelte sono infinite e sempre in costante aumento, il che non aiuta a smentire il mantra: “Chi non sa scrivere, scrive romanzi fantasy per ragazzini.”
In Italia abbiamo una vasta gamma di autori che si occupano di fantasy, ma restano spesso all’oscuro (notizia bomba: non esiste solo Licia Troisi!); Paola Zannoner è una di questi, talentuosa, con una passione smisurata per la letteratura (ha fatto anche la critica e la bibliotecaria) e molto prolifera.

Lessi questo romanzo nel 2007, all’età di 12 anni, ma mi è ricapitato tra le mani di recente e, tra l’altro, ho scoperto che l’anno scorso la De Agostini l’ha ristampato (con una copertina decisamente peggiore, ma sono gusti personali).

Trama: Meg ha quindici anni e non sospetta minimamente di essere una strega. Finché, una sera, non viene salvata da un imponente orso bianco, che la strappa dalle grinfie di un lupo.
L’orso è in realtà una maga che le affida un compito difficilissimo: dovrà viaggiare nel tempo e salvare le sue sei antenate streghe dalla persecuzione.

La giovane protagonista da impacciata e fifona, si trasforma in una talentuosa e coraggiosa strega moderna.

Niente di nuovo, insomma, ma la cosa che colpisce di questo romanzo è la cura dei dettagli e le minuziose ricostruzioni storiche al suo interno. Difatti, si ripercorre la caccia alle streghe a partire dal 1300, fino ai giorni nostri.
Interessante è vedere come si evolvono i pregiudizi sulle donne ritenute “strane” e i metodi utilizzati per “estirpare il male”, dalla muratura ai campi di sterminio.

Insomma, un modo leggero e molto ironico, per spiegare il male a chi ha meno di 15 anni.
Ma adatto anche ai grandi poco cresciuti.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: SE TI ABBRACCIO NON AVER PAURA, F.ERVAS

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Se ti abbraccio non aver paura, di Fulvio Ervas; recensione di Elisa Barchetta. Buona lettura!

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“Se ti abbraccio non aver paura” è una frase che i genitori di Andrea hanno fatto scrivere su alcune magliette del figlio, tutte dai colori molto accesi. Sì perché Andrea ha questa sorta di “abitudine” che lo porta ad abbracciare qualunque persona entri nella sua orbita e non tutti si aspettano un gesto simile così all’improvviso. Perciò le sue magliette sono una specie di avvertimento. Perché la vita di Andrea è fatta di gesti impulsivi, di ordine, di gesti ripetitivi…ma anche di confusione mentale e di isolamento in un mondo tutto suo. Sì, perché ad Andrea all’età di tre anni è stato diagnosticato l’autismo. Da allora i suoi genitori non si sono arresi, non lo hanno fatto di fronte a specialisti che spiegavano loro le cause genetiche della malattia, che la vita è imperfetta e che vivere con una persona nelle condizioni di Andrea è come vivere sotto una tirannia. Le provano tutte, dalla medicina tradizionale a quella specialistica, fino a rimedi meno convenzionali ma nulla sembra poter cambiare lo stato del loro figlio maggiore, con tutto il carico emotivo, di rabbia e angoscia che una situazione simile può portare con sé.
Con molta pazienza e tanto amore insegnano ad Andrea a esprimersi utilizzando il computer come mezzo di comunicazione, attività che inizialmente avviene solo in presenza della madre. Ma Andrea comunica il suo sentire, la sua confusione e la paura di non essere compreso – anche dai suoi genitori – la sua difficoltà a eseguire troppe richieste, a parlare e a controllare il suo corpo nonostante l’impegno; la sua disperazione e ansia per la condizione in cui si trova; il suo essere “un uomo imprigionato nei pensieri di libertà” e la volontà di guarire. Ed è con questo carico di pensieri ed emotivo che, con l’avvicinarsi dell’estate e al momento di decidere la meta per le vacanze, Franco – il padre di Andrea – decide, con coraggio e tanto amore, di rispondere a un urlo di suo figlio che sembra quasi una richiesta di libertà. Da questa volontà nasce l’idea di un viaggio attraverso il continente americano, senza alcuna tappa pianificata, ma lasciandosi guidare da Andrea e dall’imprevisto…perché per Andrea “le ore di ogni singolo giorno sono sempre un imprevisto”.
Nel loro viaggio in libertà alla scoperta dell’America, Franco e Andrea incontrano persone di qualunque tipo; alcune in grado di “sentire” davvero la loro storia e le loro emozioni, altre più diffidenti. Molte regalano loro frammenti di vita fondamentali per vivere la loro condizione in modo diverso e, forse, comprenderla in modo più profondo rispetto alle visioni fornite dalla medicina. Andrea è un ragazzo davvero speciale perché ha una capacità di sentire e di percepire il mondo che lo circonda in modo molto più intenso rispetto a chiunque altro. Abbraccia, bacia e tocca la pancia alle persone che incontra, stabilisce un contatto e resta in ascolto. E’ il suo modo di presentarsi alle persone per conoscerle e allo stesso tempo tranquillizzare se stesso, per non agitarsi e controllare la confusione che sente nella sua testa. Nei suoi occhi “corrono nuvole”, non guarda mai nessuno a lungo ma dà solo qualche furtiva sbirciata e anche se non usa le parole, sa trasmettere emozioni molto forti con semplici gesti e i suoi sorrisi. Andrea è un modo di colori, di cromie tutte sue, che sono le parole con cui si esprime. Per Andrea questo viaggio è la scoperta delle infinite possibilità di comunicare con chi sa davvero ascoltare e un avvicinarsi emotivamente a suo padre, al punto di riuscire a comunicare con lui tramite computer anche senza la presenza della madre, di vegliarlo quando sta male e di trasmettere i suoi stati d’animo anche solo con uno sguardo.
Per Franco diventa invece un’esperienza che tocca l’anima, che permette di comprendere davvero come l’autismo non sia solo fatto di gesti ripetitivi, di comportamenti particolari, di confusione mentale; no, è qualcosa di più profondo che sa regalare nuovi modi di guardare e vivere. Franco si troverà ad affrontare le sue paure e preoccupazioni di padre, trovandosi in situazioni che prima aveva solo ipotizzato per suo figlio, ma facendosi toccare profondamente anche da situazioni che lo porranno di fronte a nuove domande e nuovi dubbi…nonostante ciò lascerà anche che gli eventi permettano a suo figlio di vivere esperienze mai provate, convinto che ciò possa imprimere in Andrea qualcosa che niente e nessuno potrà mai togliergli.
L’autore, Fulvio Ervas, racconta con molta naturalezza, partecipazione, intensità e anche molta ironia la storia vera di Franco e Andrea e la loro avventura on the road alla scoperta dell’America e di se stessi in un romanzo che è ha un sapore agrodolce per le domande che solleva e le forti emozioni che suscita.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: L’UOMO CHE CADE, D. DELILLO

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo L’Uomo che cade, di Don DeLillo; recensione di Massimo Colonna. Buona lettura!

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L’uomo che cade ha un messaggio visionario molto forte. In giro per New York c’è un uomo, David Janiak, che all’improvviso in mezzo alla strada improvvisa una performance: si piazza a testa in giù, in giacca e cravatta, appeso ad un filo. Rappresenta gli uomini che si sono lanciati dalle Torri Gemelle l’11 settembre. Costretti a buttarsi dall’arrivo delle fiamme. Quando la gente lo vede si ferma, ride, resta col fiato sospeso, aspetta la polizia e poi se ne va. “Che diavolo sta facendo quello?”, si chiede con il sorriso sulle labbra prima di andarsene. Senza darsi risposta. A cena poi lo racconterà ai parenti. 

David Janiak invece è la rappresentazione dell’uomo di oggi: costretto a vivere dentro a una vita costruita dagli altri (come sono stati costretti dagli altri quelli che si sono lanciati dalle Torri), in cui l’ambiente circostante condiziona ogni tua scelta. L’uomo che cade, David Janiak, è l’uomo che non riesce a restare in piedi sulla “sua” vita. Anche quelli in giacca e cravatta, proprio come David, sono a rischio. L’uomo che cade, in ultima analisi, è l’uomo che sbaglia. 

“Si piazza davanti alla finestra e vede quel che capita per strada. Qualcosa capita sempre, perfino nei giorni più quieti e a notte fonda, basta rimanere lì per un po’ e guardare”.   

E’ quello che a volte si fa della propria vita: restare a guardare le cose che accadono, tanto prima o poi qualcosa capiterà. In questo modo si è “costretti” a vivere esperienze mediate da altri. Come davanti alla televisione. E’ quello che succede ai protagonisti del libro.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: TRINACRIME, A. VIZZINO

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Trinacrime, di Alessandro Vizzino; recensione di Giovanni Garufi Bozza. Buona lettura!

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La prima volta che Alessandro Vizzino mi parlò di questo romanzo correva l’anno 2012. Era una calda giornata di luglio, in un Circo Massimo rovente. Mi confidò che stava intervistando un pentito di mafia, per scriverne una sorta di biografia. Lì per lì mi chiesi se non fosse audace immettere nel mercato l’ennesimo libro su Cosa Nostra, per giunta concentrato su un mafioso, per quanto pentito.

Poi mi sono detto che sì, probabilmente era necessario aggiungere qualcosa al già noto. Occorre continuare a parlare di mafia, perché proprio quando tutto tace che essa è più forte.

Infine è arrivata la lettura, che mi ha stupito sotto molteplici punti di vista.

Prima di tutto, mi preme sottolineare come Alessandro Vizzino sia cresciuto stilisticamente. Avevo già avuto modo di conoscere il suo talento con Sin e con La culla di Giuda, ma credo che con Trinacrime si sia superato, sancendo un passaggio fondamentale dallo status di autore allo status di scrittore.

Vizzino mi ha fatto dimenticare chi fosse nel corso della lettura, è scomparso l’amico, è scomparso l’editore, mi sono completamente lasciato trasportare dalla vita di Tonio Sgreda (nome inventato, storia e personaggio reali), dalla sua ascesa, caduta e redenzione, come recita la quarta di copertina. Mi sono lasciato cullare da parole scelte ad arte, ben incastonate tra loro, da metafore da sottolineare. Uno stile da rubare, in qualche modo. E quando si hanno queste impressioni, si è di fronte al libro che non appartiene a un semplice autore, ma a uno scrittore. E ci si ritrova a chiudere il romanzo, scorrere il nome di chi lo ha scritto, e mormorare: ne hai fatta di strada.

La scrittura di questo testo ha richiesto anni e il lavoro di fino si nota. Nessun termine o parola, persino congiunzione, è usato per caso. D’effetto è l’uso continuo del dialetto siciliano, tradotto in nota quando non comprensibile, che rende l’intera impalcatura ancora più realistica.

Lodato lo stile, passo al contenuto.

È un romanzo che assume un particolare punto di vista su Cosa nostra, svela una mafia rimasta probabilmente più nascosta, rispetto a quella Corleonese, ma altrettanto drammatica, e lo fa dall’interno, ripercorrendo la vita di chi volle vivere oltre le sue possibilità, avere tutto, essere un grande uomo, per poi ritrovarsi con un’unica speranza: morire almeno da buon uomo. Vizzino si fa portavoce di un pluriomicida, narra, ma non prende posizione, non condanna e non perdona, scelta a mio avviso molto azzeccata.

Ripercorre i nomi, pur variandoli, di chi morì negli anni bui di decenni in cui Cosa nostra primeggiava su Cosa pubblica, lo Stato, gli anni del delitto di Dalla Chiesa, gli anni del Maxi Processo, gli anni di Falcone e Borsellino.

Tutti questi elementi restano però sullo sfondo, ci sono altri uomini, come Sgreda, o altri eroi, come Giovanni Lizzio, che sono stati protagonisti di eventi, omicidi e lotte per la legalità rimaste nascoste alla storia comunemente conosciuta.

Seguendo la promozione di Trinacrime, ho notato con piacere che lo si sta promuovendo anche nelle scuole, ed è un luogo che considero essenziale, per due motivi.

Il primo risiede nelle parole di Vizzino, nell’unico commento che si lascia volutamente scappare a romanzo concluso: (Cosa nostra) è anche l’effige di un popolo che ancora non ha compreso se stesso, incapace di fraternizzare, non in gradi di riconoscersi, prima ancora che in una sola bandiera, in un unico afflato. (…) Cosa nostra non sarà mai vinta individuandone e arrestandone gli elementi, prima o poi ne nasceranno di nuovi; non basteranno dieci Falcone, mille Borsellino o diecimila Lizzio, pur nella loro fulgida generosità. Cosa nostra morirà soltanto quando tutti noi, da italiani e da esseri umani, sapremo scacciarla dalle nostre menti, da distorte abitudini, da un’ancestrale cultura, consci che un pezzo di Cosa nostra, in un modo o nell’altro, è purtroppo dentro ognuno di noi.

È nella scuola che si può passare questo messaggio di intimo cambiamento. È nella scuola che si può insegnare che l’Italia non può più essere un Paese diviso, per dirla con la Mazzantini, un Paese abituato ad avere un sopra e un sotto, un attico e una cantina. Ma è soprattutto nella scuola che va raccontata la mafia e il nostro passato recente, spesso trascurato.

Quante volte si studiano gli assiri e i babilonesi nei diversi gradi di scuola o le gloriose imprese dell’impero romano? Pace all’anima loro, ma si dà così tanta importanza al passato remoto, che spesso i programmi scolastici non arrivano fino al passato prossimo: alla fondazione della Repubblica, a Moro, all’euro e, appunto, alla mafia. Tutto ciò è lasciato alla cultura cinematografica e letteraria.

Il secondo motivo risiede nella stessa vita di Sgreda, che a scuola non andava, che preferiva lottare contro la fame. E questa lotta, condotta per strada e non con la conoscenza, lo ha portato a sbagliare. Sgreda non ha incontrato, dopo i primi errori, qualcuno che gli insegnasse il bene e il male, qualcuno educativamente più forte del suo stesso umile padre. Ha continuato a errare, a rubare per vivere, a guadagnare a spese del bene comune, fino a cadere nella trappola di Cosa nostra, che, come la Camorra, intercetta gli sbandati, per farne “grandi uomini”. La scuola, in questo, come le altre forme di associazione e di educazione (ricordi Don Puglisi?) hanno un ruolo strategico fondamentale. Togliete alla mafia il suo cibo, i giovani, e la mafia morirà da sola, incapace di riprodursi.

Vizzino ha scelto lo strumento più idoneo alle sue corde per passare messaggi importanti, senza citarli direttamente, per dare testimonianza di ciò che è stato e togliere il velo a una parte poco conosciuta della mafia: la forma narrativa. Ha rinunciato a biografie, e penna in mano ha raccontato la vita di Sgreda, in una modalità facilemente fruibile ai più.

Il resto, il vero cambiamento, il non dimenticare, spetta al lettore.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: UN UOMO, O. FALLACI

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Un uomo, di Oriana Fallaci; recensione di Sebastiano Cappello. Buona lettura!

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“La libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere”

Questa frase rappresenta il perno su cui ruota tutta la vicenda raccontata in “Un uomo”, capolavoro indiscusso di Oriana Fallaci, una grande donna del secolo scorso e prima giornalista italiana ad andare sul fronte di guerra; la libertà infatti è una delle grandi tematiche presenti in questo libro, romanzo biografico di un altro grande personaggio del secolo scorso, Alekos Panagulis, che è stato anche il grande amore della scrittrice fiorentina.

In questo romanzo biografico, suddiviso in sei parti, Oriana ci narra la parte più attiva della vita di Panagulis: il libro inizia infatti con il tentato attentato ai danni di Papadopulos, dittatore al tempo del regime dei colonnelli in Grecia, per proseguire con gli anni di prigionia, nei quali Panagulis subisce le più atroci torture, la sua liberazione dovuta alla grazia concessagli proprio da Papadopulos, l’incontro con Oriana, l’inizio della loro tragica e meravigliosa storia d’amore, durata tre anni, l’attività politica di Panagulis e infine l’incidente automobilistico nel maggio del 1976, dove Panagulis perde la vita.

Questo romanzo è la mia seconda esperienza con Oriana Fallaci (precedentemente avevo letto “Lettera a un bambino mai nato”) e ne sono rimasto davvero colpito.

Che cosa mi ha colpito di questo libro? La mia risposta è TUTTO, perché in “Un uomo” , a detta di Domenico Procacci, c’è di tutto: c’è la rappresentazione di un eroe, Alekos Panagulis, e della sua vita esemplare e Oriana ci parla di quest’uomo, di questo eroe, di questo poeta, senza nasconderci nulla: nel libro vi ritroverete a leggere i punti forza e le debolezze di Panagulis, troverete un autentico ritratto di questo eroe della Resistenza greca. Oltre alla figura di Alekos, “un uomo” ci parla anche di Oriana, che si ritrova a lottare accanto a quest’uomo, con cui passerà tre anni intensi e tragici e a lottare anche contro se stessa, contro una parte di sé che non le piace, molto spesso lei si allontanerà da Alekos per ritrovare la propria indipendenza, sulla quale lei ha costruito la sua vita, ma tutto sarà inutile perché lei resterà sempre legata alla figura di quest’uomo, che lei amava tanto; a tal proposito in questo libro troviamo la più grande storia d’amore mai scritta: l’amore che legava Alekos e Oriana, un rapporto tragico, difficile: lui la tradirà molte volte e lei perde il bambino che aspettava da lui. C’è infine la lotta per la libertà, la giustizia e la democrazia e il Potere, quello che comanda e che spaventa e c’è anche il Popolo, che non è popolo, ma gregge che si sottomette al Potere ed è qui che sta l’attualità disarmante di questo romanzo e questo è l’aspetto che mi ha colpito di più e da qui che io ho cominciato a interrogarmi sulla situazione dell’Italia, sul popolo o, per meglio dire, “gregge” italiano; il paragone viene facile farlo perché le dittature sono sempre le stesse, i meccanismi sono sempre quelli e la ricerca della libertà da parte dell’uomo è sempre quella; leggendo le pagine di “un uomo” io ho dedotto che anche noi ci troviamo di fronte a una dittatura, che ci dice cosa mangiare, basti pensare ai divieti dell’Ue di consumare ossobuco, pajata e altri piatti tradizionali poiché considerati dannosi, e tra poco di dirà come vestirci, come parlare, come comportarci. La morale di questo libro è questa” Non bisogna mai arrendersi, dobbiamo smettere di essere gregge, dobbiamo essere persone, esseri umani, che sono in grado di combattere e di ribellarsi”.

Concludo consigliando questo libro a tutti e soprattutto a chi sta al Potere oggi nel mondo e a tutti noi uomini, soprattutto agli Italiani, che non sono popolo, esseri umani, ma gregge di pecore che segue il pastore e i cani, ovvero la classe dirigente che ci comanda, che ci spaventa. Prendiamo esempio da Panagulis e da Oriana che in tutta la loro vita hanno combattuto per la libertà.

Immagine

(Oriana Fallaci, un uomo, BUR rizzoli, 2000, pp. 632, €13.00)

(Oriana Fallaci, un uomo, BUR rizzoli, 2000, pp. 632, €13.00)

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: RAGIONE E SENTIMENTO, J. AUSTEN

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Ragione e sentimento, di Jane Austen; recensione di Gresi Vitale. Buona lettura!

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“È l’amore un capriccio od un sentimento? No, è immortale come la verità incorrotta. Non è un fiore che si sfoglia quando la gioventù cade dal gambo della vita poiché crescerà persino in regioni aride dove non scorre acqua né un raggio di speranza inganna le tenebre.”

Sensibilità e amore. Amore e psiche. L’eterno contrasto. Semplici parole che sembrano stonare fra loro, così opache nella semplicità delle cose, silenziose e luminose che dicono più di quel che tacciano. Ma, sussurrate nel tempo davanti agli occhi del mondo, rispecchiano l’idea dell’amore o del desiderio di un mondo in cui l’uomo è oggetto d’unione alla sua anima: “l’alato Cupido che viene dipinto cieco”, come diceva Shakespeare.
Questa è una breve massima che compone il ciclo della produzione austeniana. Questa è la storia di Ragione e sentimento. Due sorelle che scoprono la natura di questo sentimento dal nulla. Due ragazze romantiche e sognatrici incuranti degli incauti sussulti del cuore che, talmente forti da dare un senso di malessere, sono state trasportate qua e là dalla corrente dell’amore, osservando l’inutilità di un mondo fatto di cose grandi e piccoli di ricchi signori acutamente consapevoli del loro status sociale. Protagoniste di un destino incerto, che li induce a scoprire la natura delle loro opinioni e azioni in contrasto alle massime preferite, descritti in tutta la loro meravigliosa stupidità e trascuratezza, conferendo un ritratto carente della vita che c’è stata. Due fanciulle ingenue e un pò bigotte che, a loro rischio e pericolo, sono scesi a patti con il vuoto morale dei loro tempi. Provando sulla loro pelle l’essenza dell’amore nella pronta immaginazione, nei modi affetti, buoni e garbati, nella più assoluta perfezione. La vita vissuta con troppa calma, con molti aspetti pieni di banalità, arroganza e artificialità. E, a dargli coraggio sul campo di battaglia, a regalargli intelligenza o coscienziosità, a sospingerle verso un lento processo di scoperta verso se stessi e il mondo circostante sono due gentiluomini che hanno già assaporato la brama lussuriosa dell’amore, per quanto bella ma malinconica. Compiacimento e bellezza. Desiderio e fedeltà. Anime inquiete che, accomunate dal senso di fratellanza, dal rispetto e dalla sottomissione nei riguardi del protettore, si sono adattati allo sfarzo e alla mentalità chiusa del tempo. Sono stati promessi sposi di giovani donne cui non hanno mai nutrito alcun sentimento d’amore, hanno avuto bambini, si sono volutamente sottomessi al volere di una madre rigida ed egoista. Non hanno mai avuto scelta. E le ragazze Dashwood sono arrivate troppo tardi, dubbiose se donare una vita di gioie e agi a un guscio ermeticamente vuoto. Al di là del benessere e della burrascosa tempesta della vita che, in un momento, potrebbe frantumarsi contro gli scogli.
A narrarci la loro storia è una tranquilla signora nubile, che ha avuto a disposizione nient’altro che carta e inchiostro. Una giovane autrice che fece di Ragione e sentimento un chiaro tentativo di difendere il senno e il ritegno per se stessa, rappresentandola in una sottilissima vena ironica, incarnata nella giovane Eleonor. Una trentaseienne romantica e sognatrice, per nulla dissimile a quelle ombre che la circondavano, alla luce tremula di una candela, appollaiate sulle sue spalle – fiaccata dalle disuguaglianze sociali e da alcuni dogmi dettati dal cristianesimo.
Il dolce richiamo a una delle più acclamate opere della letteratura inglese, che qualche anno fa mi aveva fatto conoscere una Jane Austen sentimentale, matura e profonda, è stato inconsueto e particolare. Lucido e sentimentale. E, ignorando del tutto il gusto e lo stile di quest’autrice, convenzionale e ingenuo. Speravo di farmi cullare da una bella storia d’amore e che, intessendo una trama realistica basata esclusivamente su esperienze amorose che avrei potuto vivere in prima persona, ho ascoltato Ragione e sentimento con un po’ di freddezza e distacco. Mi aspettavo di trovare, in qualunque sguardo, gesto o imperfezione, qualcosa che riempisse il mio cuore di una dolcezza triste. Il romanzo della Austen, tuttavia, non si è dimostrato come il poema armonioso, sentimentale o seducente che, io, avrei potuto avvertire immensamente. Con la sua travagliata storia di religione, desideri e lealtà, semplice e puro come l’etere. Piuttosto come un moto lento e poco rassicurante dell’anima, involontario e silenzioso che, componendo una melodia dolce e piacevole, avrebbe potuto rendermi prigioniera delle stesse colpe delle sorelle Dashwood. Zeppo di dialoghi e scevro di descrizioni di qualunque natura, nonostante gli sforzi dell’autrice, l’intimità condivisa col lettore è poverissima: c’è sentimentalismo, ma non sorretto da uno stile lirico e romantico.
E’ tuttavia un opera che non nasconde un certo fascino, in cui ho trovato nozioni e concetti concerni al secolo. La Austen è indubbiamente una poetessa romantica, affascinante, acuta nella meditazione e nella forte emotività. Scevra di passione, fremiti di autoaffermazione dell’anima, rabbia o follia. La sua voce arriva dritto nei cuori di chi legge e, pronunciando quelle giuste parole capaci d’infondere vita persino alle cose inanimate, esamina i burattini di questo teatro allestito dalle sue parole. Narrando la vita di Eleonor e Marianne quasi come fosse sua. Sciatta, imprecisa, imperfetta destinata a divenire massima di vita, d’istinto e carne. Padrona del mondo, conseguenza dello spirito a spegnersi come una candela.
Una constatazione triste e amara, quando si giunge alla fine di Ragione e sentimento, nonché disincanto del romanzo in se. Le avventure amorose delle sorelle Dashwood sono state ideate con l’intento di osservare i loro movimenti, porre dei limiti con una certa serietà in cui la Austen, nell’evidenziarli, diviene alata e inavvicinabile. Raccontate non in prima persona, ma costruite giorno dopo giorno con eventi che caratterizzano la vita di chiunque.
Ragione e sentimento è un romanzo che non va dritto al cuore ma al cervello, che trascina più razionalmente che emotivamente. Rileggerlo mi ha lasciata un po’ insoddisfatta. Desiderosa di poter assistere a qualcosa di più forte: assistere alla nascita di un amore meraviglioso, trascendentale e folle che impallidisce persino dinanzi al bagliore bruciante del sole nel limpido cielo.

LIBEROLIBRO MACHERIO CONSIGLIA: L’arte di correre, H. Murakami

Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Iniziamo questo appuntamento settimanale con la recensione di L’arte di correre, di Haruki Murakami a cura di Martina Volonté. Buona lettura!

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“L’arte di correre” è un’autobiografia dello scrittore giapponese Murakami, vincitore di numerosi premi letterari, ma conosciuto soprattutto per la sua opera “Kafka sulla spiaggia”.

In questo libro l’autore crea un connubio tra le sue due grandi passioni: la corsa e la scrittura. Due attività che sembrano agli antipodi, possono in realtà essere complementari, fino al punto che una non può esistere senza l’altra.

Murakami insegna a non arrendersi di fronte alle difficoltà, cosa che può sembrare noiosa e superficiale, ma scommetto che vi ritroverete pienamente nelle sue parole.

“Scrivere un libro è un po’ come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore silenzioso e preciso, che non cerca conferma in un giudizio esterno.”

Il corpo e la mente, seppur divisi e totalmente differenti, necessitano delle stesse motivazioni; uno non può continuare senza l’altro. Le rigide regole imposte dalle maratone aiutano lo scrittore nella sua vita da artista, impedendogli di buttare all’aria il suo talento, aiutandolo nell’organizzazione del lavoro e delle idee.

Interessante leggere di tutti i retroscena della vita di un grande personaggio, uno scrittore che, secondo me, si può definire il Baricco orientale. Non aspettatevi di leggere una noiosa biografia o una dispensa su come si corre. Lo stile di Murakami è unico nel suo genere: ironico, pieno, vitale, mai noioso e mai troppo prolifero. Farà venir voglia di comprare delle scarpe da corsa anche ai più pigri.

Poche pagine che non rimpiangerete di aver letto, una lettura (quasi) obbligatoria per ogni scrittore, perché insegna che non sempre ci si deve dannare l’anima per essere bravi.

Da sportiva mi sono totalmente ritrovata nelle sue parole: nella sensazione di stare per mollare tutto, dell’incessante pensiero di smettere, dell’orgoglio che si prova quando alla fine prevale la volontà.

La parte che più ho preferito nel libro è quella sull’ultra-maratona del lago Saroma, nell’Hokkaidō, una corsa di ben cento chilometri! Qui il fisico dello scrittore viene veramente messo alla prova.

“Non sono una persona. Sono una pura e semplice macchina. E visto che sono una macchina, non ho bisogno di sentire proprio nulla. Devo solo andare avanti.”

Maniacale, metodico, ma anche creativo e spiritoso, ecco Murakami. Un’artista che si discosta totalmente dalla figura dello scrittore maledetto.

(Haruki Murakami, L’arte di correre, Einaudi, 2007, pp. 157, 11 euro circa)