Ogni settimana, LiberoLibro Macherio si propone di consigliare, tramite le recensioni dei nostri fidati recensori, un libro in particolare. Questa settimana consigliamo Trinacrime, di Alessandro Vizzino; recensione di Giovanni Garufi Bozza. Buona lettura!
La prima volta che Alessandro Vizzino mi parlò di questo romanzo correva l’anno 2012. Era una calda giornata di luglio, in un Circo Massimo rovente. Mi confidò che stava intervistando un pentito di mafia, per scriverne una sorta di biografia. Lì per lì mi chiesi se non fosse audace immettere nel mercato l’ennesimo libro su Cosa Nostra, per giunta concentrato su un mafioso, per quanto pentito.
Poi mi sono detto che sì, probabilmente era necessario aggiungere qualcosa al già noto. Occorre continuare a parlare di mafia, perché proprio quando tutto tace che essa è più forte.
Infine è arrivata la lettura, che mi ha stupito sotto molteplici punti di vista.
Prima di tutto, mi preme sottolineare come Alessandro Vizzino sia cresciuto stilisticamente. Avevo già avuto modo di conoscere il suo talento con Sin e con La culla di Giuda, ma credo che con Trinacrime si sia superato, sancendo un passaggio fondamentale dallo status di autore allo status di scrittore.
Vizzino mi ha fatto dimenticare chi fosse nel corso della lettura, è scomparso l’amico, è scomparso l’editore, mi sono completamente lasciato trasportare dalla vita di Tonio Sgreda (nome inventato, storia e personaggio reali), dalla sua ascesa, caduta e redenzione, come recita la quarta di copertina. Mi sono lasciato cullare da parole scelte ad arte, ben incastonate tra loro, da metafore da sottolineare. Uno stile da rubare, in qualche modo. E quando si hanno queste impressioni, si è di fronte al libro che non appartiene a un semplice autore, ma a uno scrittore. E ci si ritrova a chiudere il romanzo, scorrere il nome di chi lo ha scritto, e mormorare: ne hai fatta di strada.
La scrittura di questo testo ha richiesto anni e il lavoro di fino si nota. Nessun termine o parola, persino congiunzione, è usato per caso. D’effetto è l’uso continuo del dialetto siciliano, tradotto in nota quando non comprensibile, che rende l’intera impalcatura ancora più realistica.
Lodato lo stile, passo al contenuto.
È un romanzo che assume un particolare punto di vista su Cosa nostra, svela una mafia rimasta probabilmente più nascosta, rispetto a quella Corleonese, ma altrettanto drammatica, e lo fa dall’interno, ripercorrendo la vita di chi volle vivere oltre le sue possibilità, avere tutto, essere un grande uomo, per poi ritrovarsi con un’unica speranza: morire almeno da buon uomo. Vizzino si fa portavoce di un pluriomicida, narra, ma non prende posizione, non condanna e non perdona, scelta a mio avviso molto azzeccata.
Ripercorre i nomi, pur variandoli, di chi morì negli anni bui di decenni in cui Cosa nostra primeggiava su Cosa pubblica, lo Stato, gli anni del delitto di Dalla Chiesa, gli anni del Maxi Processo, gli anni di Falcone e Borsellino.
Tutti questi elementi restano però sullo sfondo, ci sono altri uomini, come Sgreda, o altri eroi, come Giovanni Lizzio, che sono stati protagonisti di eventi, omicidi e lotte per la legalità rimaste nascoste alla storia comunemente conosciuta.
Seguendo la promozione di Trinacrime, ho notato con piacere che lo si sta promuovendo anche nelle scuole, ed è un luogo che considero essenziale, per due motivi.
Il primo risiede nelle parole di Vizzino, nell’unico commento che si lascia volutamente scappare a romanzo concluso: (Cosa nostra) è anche l’effige di un popolo che ancora non ha compreso se stesso, incapace di fraternizzare, non in gradi di riconoscersi, prima ancora che in una sola bandiera, in un unico afflato. (…) Cosa nostra non sarà mai vinta individuandone e arrestandone gli elementi, prima o poi ne nasceranno di nuovi; non basteranno dieci Falcone, mille Borsellino o diecimila Lizzio, pur nella loro fulgida generosità. Cosa nostra morirà soltanto quando tutti noi, da italiani e da esseri umani, sapremo scacciarla dalle nostre menti, da distorte abitudini, da un’ancestrale cultura, consci che un pezzo di Cosa nostra, in un modo o nell’altro, è purtroppo dentro ognuno di noi.
È nella scuola che si può passare questo messaggio di intimo cambiamento. È nella scuola che si può insegnare che l’Italia non può più essere un Paese diviso, per dirla con la Mazzantini, un Paese abituato ad avere un sopra e un sotto, un attico e una cantina. Ma è soprattutto nella scuola che va raccontata la mafia e il nostro passato recente, spesso trascurato.
Quante volte si studiano gli assiri e i babilonesi nei diversi gradi di scuola o le gloriose imprese dell’impero romano? Pace all’anima loro, ma si dà così tanta importanza al passato remoto, che spesso i programmi scolastici non arrivano fino al passato prossimo: alla fondazione della Repubblica, a Moro, all’euro e, appunto, alla mafia. Tutto ciò è lasciato alla cultura cinematografica e letteraria.
Il secondo motivo risiede nella stessa vita di Sgreda, che a scuola non andava, che preferiva lottare contro la fame. E questa lotta, condotta per strada e non con la conoscenza, lo ha portato a sbagliare. Sgreda non ha incontrato, dopo i primi errori, qualcuno che gli insegnasse il bene e il male, qualcuno educativamente più forte del suo stesso umile padre. Ha continuato a errare, a rubare per vivere, a guadagnare a spese del bene comune, fino a cadere nella trappola di Cosa nostra, che, come la Camorra, intercetta gli sbandati, per farne “grandi uomini”. La scuola, in questo, come le altre forme di associazione e di educazione (ricordi Don Puglisi?) hanno un ruolo strategico fondamentale. Togliete alla mafia il suo cibo, i giovani, e la mafia morirà da sola, incapace di riprodursi.
Vizzino ha scelto lo strumento più idoneo alle sue corde per passare messaggi importanti, senza citarli direttamente, per dare testimonianza di ciò che è stato e togliere il velo a una parte poco conosciuta della mafia: la forma narrativa. Ha rinunciato a biografie, e penna in mano ha raccontato la vita di Sgreda, in una modalità facilemente fruibile ai più.
Il resto, il vero cambiamento, il non dimenticare, spetta al lettore.
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